Bentornati cari amanti degli argomenti attuali!
Riprendiamo il nostro viaggio nel doppio binario di virus e arte, seconda parte. Sempre nello stile di The Blue Drop, con la goccia di inchiostro e di colore.
L’altra volta avevamo visto come la malattia era un mezzo per ammonire nella religione, per affermare e confermare la valenza del potere delle storie di Vecchio e Nuovo Testamento, per raccontare le agiografie dei Santi e le storie della Chiesa. Usata quindi come un mezzo per dire altro, qualcosa di simbolico o di allegorico.
Vediamo adesso alcuni esempi della malattia usata sempre come allegoria in alcune scene molto più pagane.
Rimaniamo sempre in ambito tardo medioevale (quindicesimo e sedicesimo secolo) e dall’Olanda al Belgio, fino in Italia e Spagna, Hyeronimus Bosch è un pittore di corte e non solo. La sua genialità e l’incredibile bellezza dei suoi lavori derivano in particolare da una cosa: dalla sua capacità di rappresentare un numero indefinito di dettagli piccolissimi rappresentando cose irreali, scene paradisiache e rocambolesche. Quei dettagli nascosti sono il linguaggio attraverso cui egli costruiva quello che voleva dire e anche quello che non voleva.

Negli anni ultimi del 1400 realizza un’opera davvero curiosa, in cui il tema è proprio la trattazione della malattia, a modo suo e secondo i canoni dell’epoca. “La cura della follia” o “Estrazione della pietra della follia”: scena ospedaliera, ma all’aria aperta. Un uomo con una faccia tutt’altro che convinta si sta lasciando trapanare il cranio per farvi fuoriuscire “la pietra della follia”. In verità sono fiori, uno compare anche sul tavolo.
Nell’immaginario collettivo medioevale, questo sistema era l’unica via per curare la malattia mentale, nella quale venivano inclusi non solo i matti ma anche gli stolti e gli ingenui. In lingua olandese arcaica un keye, è la pietra ma anche un bulbo e questo spiegherebbe perché l’artista ha rappresentato un fiore. La malattia in questo caso è mentale e il quadro riporta ad una celebre storiella in cui un ingenuo, credendo di mettersi nelle mani di un chirurgo, si fa abbindolare dal titolo e dai vestiti.
Il medico, così come gli assistenti abilmente vestiti in abiti clericali, sono in verità degli imbroglioni, forse anche ubriaconi (per la presenza del boccale da taverna). La sorella con il velo bianco ha un libro sulla testa, mentre il chirurgo ha un imbuto. Nel primo caso, la metafora del libro è che il peso della conoscenza rende autorevoli solo all’apparenza, poiché veniva rimproverata l’ottusità dei dogmi clericali imposti. L’imbuto, invece, è simbolo di stupidità e di chi ottiene la conoscenza e la competenza “ingollando senza masticare” con lo studio e la fatica.
In questo caso sia la malattia, sia la cura sono allegorie di una condizione di stoltezza, per chi si affida a false terapie; ma anche si finge guaritore per ingannare la gente e che attraverso la persuasione e la credenza collettiva (un po’ come la psicosi di adesso…) ottengono devozione e fede. Bosch biasimava entrambe le figure. L’immagine della vecchia venne interpretata anche come la follia che insieme al frate (la credenza in senso negativo) andavano a creare un messaggio completo della totale mancanza di giudizio di un individuo poco assennato.
Abbiamo già avuto modo di vedere come la malattia usata come allegoria ritorna spesso anche in forme più raffinate, ad esempio dalla mano del maestro Bronzino , il quale utilizza una figura di vecchia urlante e dal colorito malsano per rappresentare la sifilide, in stretta opposizione con l’amore che ne è la principale causa. Questo, nell’opera “Allegoria del Trionfo di Venere e Cupido”

In effetti, dopo la lebbra biblica e la peste medioevale, un nuovo grande protagonista divenne ambito dagli artisti: la sifilide, mal francese o mal d’amore.
Malattia dalle brutte conseguenze, nota fin dal XV secolo, che divenne famosa in particolare per due motivi, di cui uno puramente medico-scientifico: è infatti una malattia che riesce a interessare molti aspetti della salute, dalla pelle al sistema immunitario fino a quello neurologico, con conseguenze anche sullo stato psicologico del paziente. L’altro motivo è legato alla dimensione morale (e moralista) di come la malattia si trasmettesse e in che ambienti fosse più possibile prenderla. Bordelli, case di tolleranza, frequentazioni occasionali, in quanto malattia sessuale.
In verità vi erano altre vie di contagio, ma l’immaginazione collettiva aveva già tracciato i suoi disegni. La si legò a tutto ciò che era fuori dalla santità e liceità del matrimonio e delle regole di vita consone della società. La sifilide, curiosamente, ebbe molta più implicazione sociale che religiosa, in quanto chiunque poteva prenderla poiché chiunque poteva avere rapporti. Per cui tutti ne avevano paura. Averla significava essere additati come “fornicatori”, persone di dubbia moralità, anche se magari si aveva avuto la sfortuna di capitare in un gabinetto poco pulito. Non voleva dire solo ammalarsi, ma anche perdere casa e famiglia, forse lavoro. Non era come la tubercolosi che – si pensava- fosse a discrezione di chi stava in ambienti di respirazione malsana. In questo le malattie sono molto democratiche.

Nel XVIII secolo poteva essere allegra compagnia dei matrimoni moderni. Il pittore inglese William Hogart fu un eccelso maestro della rappresentazione sociale contemporanea del suo tempo, con una vena di satira straordinaria. I suoi cicli di storie sono intelligenti e divertenti, con moltissimi dettagli che alimentavano il doppio senso continuo. Nel rappresentare la storia di un matrimonio combinato e infelice, il ciclo di “Matrimonio -a-La Mode” del 1743-45, Hogart inserisce anche la malattia venerea.
In uno dei quadri del ciclo, “Téte à téte“, si vedono i due sposi: è ora di pranzo e la signora si stira assonnata con il viso di chi ha combinato qualcosa durante la notte. Lo sposo, assente e con l’aria stanca, ignora la moglie mentre il cagnolino tira fuori dalla tasca una cuffietta da notte. La moglie non se ne cura. Sul collo di lui, troneggia chiara una macchia scura, simbolo di una malattia cutanea che riconduce a una infezione venerea.

Le modalità con cui la malattia venne rappresentata (allegoria, monito, devozione, studio e cronaca) di certo non sparirono. Quello che cambiò fu il tipo di malattia, chi la prendeva, il modo in cui veniva percepita e il rapporto che avevano gli artisti nel rappresentarla.
Diciamo che da un punto di vista psicologico, l’entità astratta della malattia fu qualcosa che poteva essere usata come vessillo, come “piccolo” per rappresentare il grande. In seguito, passò a una sorta di “compagna” o capro espiatorio, ma in ogni caso non più una presenza sovrannaturale, ma qualcosa di più attuale, sanguigno e reale, che poteva costituire una entità con cui convivere. Poteva essere un qualcosa di maligno e misterioso a cui ispirarsi per descrivere un mondo torbido e romantico, drammatico e affascinante.
Tubercolosi, sifilide e colera furono indiscussi protagonisti di quadri, storie, romanzi, opere teatrali. Erano il nemico da combattere, l’antagonista da sconfiggere, non più il diavolo o l’eresia, ma l’essere nato con la “sventura” di essere uomo.
Per esempio: Nella seguente illustrazione, Honoré Daumier si pone a metà strada tra artista e illustratore di cronaca e mostra a modo suo la città di Parigi in una epidemia di colera nella prima metà del 1800. La cosa che più colpisce (il centro della scena) è il morto steso per terra sulla soglia dell’uscio di una casa. La donna non può non averlo visto, ma lo ignora. Perfino il cane gli passa accanto senza interesse. Ora, Daumier non era celebre per la sua delicatezza nel trattare i temi di vita quotidiana, ma in questo caso -purtroppo- c’è da pensare che la componente dell’indifferenza fosse di uso comune in quel contesto. Tuttavia, la documentazione poteva avvenire in altri modi. Qui vi è un palese intento drammatico che va oltre il mostrare. E questo perché Daumier era un critico accanito della società contemporanea dei suoi tempi.

Quindi, astutamente, prende una situazione di malattia e attualità e la trasforma in una opera che prende alla sensibilità. Pone l’osservatore da un punto di vista più coinvolto e allo stesso tempo lo induce a vedere il suo punto di vista. Come una società noncurante e rassegnata all’egoismo scaturito talvolta dal benessere, talvolta dall’istinto di (propria) sopravvivenza. Quello è l’uomo, c’è poco da fare.
In ogni caso, l’artista mette sé stesso in questa scena, non si limita a fare l’artista commissionato.
Anche nell’incisione sottostante di George John Pinwell del 1866 mostra in modo eloquente come il pericolo del colera fosse celato soprattutto nell’acqua. La morte stessa “serve” il beverage malsano ai suoi avventori. Sebbene il messaggio sia crudo, è innegabile che vi sia una sorta di ironia nel mostrare la morte in questo modo. Semplicità, affinché il messaggio penetri e renderlo ancora più vero. Parente della moderna pubblicità.

Anche il fatto che la morte fosse rappresentata come uno scheletro che cammina, interagisce e addirittura si veste come gli appartenenti alla società, ne attesta il valore più “papale”: meno aulico, solenne drammatico. La morte e la malattia fanno parte del quotidiano e bisogna conviverci.
Per tornare alla sifilide, nel suo caso questa attualizzazione arrivò addirittura alla creazione di una sua forma umana. Una donna smagrita, con un colorito verdastro, i capelli scarmigliati, le spalle scoperte, magari non giovanissima. Sorvoleremo sul fatto che la figura potrebbe ricordare leggermente una donna di costumi sconvenienti, che secondo la società erano le stesse untrici del male della sifilide. Come a voler associare prepotentemente loro alla malattia. In altre rappresentazioni più moderne, anni ’30 e ’40 assunse altre forme, addirittura quella di una bambina. Ma resta il fatto che a quanto pare la sifilide debba essere donna.

Grazie agli ambienti coloriti in cui si pensava si diffondesse, divenne anche un sinonimo di vita sregolata, quindi per molti, affascinante, degna di essere scritta e documentata, di essere dipinta. Negli ambienti bohemienne dell’800 prostitute e ballerine divennero sinonimo di questa possibilità.

Osserviamo il superbo ritratto che Toulouse-Lautrec fa di “Una ispezione medica a Rue des Moulins” nel 1894. Le ispezionate sono donne di Pigalle o del Moulin Rouge o di qualche altro locale; ubbidienti, fanno l’ispezione tutte insieme, in fila. Sono già svestite, senza particolare pudore e con l’espressione di chi non vede l’ora che finisca. Non sono troppo giovani, non particolarmente graziose. La bionda ha un che di rude con una postura incurvata, spalle nodose e il doppio mento degli anni trascorsi. Qui la malattia non è fisicamente presente. Non vi sono malati e non vi è dramma.

La genialità – forse involontaria all’epoca- di Toulouse è che senza inserire simboli o riferimenti, bastano le parole nel titolo “ispezione” “medica” e la figura di due donne che si reggono la sottoveste preparandosi a mostrare la zona intima, per aprire l’immaginazione alla realtà della sifilide e a tutti i concetti che la parola recava con sé: bordello, malaffare, poca pulizia, clienti, rosso, vicoli bui, bolle sul viso, pazzia. Provate a pensare alla parola sifilide, ditemi se non vi vengono in mente questi termini.
Arte per libera associazione. Come diceva Freud.
Naturalmente, la sifilide non era l’unica malattia “d’amore” presente, il campionario era ampio: vi era già la gonorrea, la clamidia, l’epatite. Anche se non erano così conosciute e curabili. Un’altra grande protagonista, la tubercolosi, la vedremo nel capitolo successivo.
Abbiamo visto che esse rappresentavano una svolta nel modo di rappresentare la malattia, con ironia e con realismo, ma comunque con presenza attiva nella vita quotidiana ed esse costituivano anche delle implicazioni sociali non indifferenti. Famiglia, casa, amici, lavoro: essere un malato di questo tipo rendeva ben più di un caso clinico. Affibbiava un cartellino ben preciso, come i lebbrosi dell’Antico Testamento.
Richard Tennant Cooper, pittore inglese classe 1885, attivo in tutta la prima metà del ‘900, dipinse nel 1912 proprio l’opera “Sifilide”, la cui descrizione è assai eloquente: un uomo disperato probabilmente nell’aver appena scoperto il suo contagio. Al suo fianco una bella donna seminuda, truccata e acconciata come una donna di mondo; la sua figura irreale è fluttuante nell’impalpabilità di un mantello trasparente. Nel ventoso effetto del mantello arriva la donna vecchia e piagata che tocca l’uomo. Ormai è suo, si era nascosta nelle pieghe del piacere e ora può venire fuori. Sul tavolo un mazzo di fiori rossi che richiamano il vigore e l’allegria di una vita in salute e una bottiglia che indica il fare festa. Le donne ghignano. La vita di quell’uomo è distrutta.

Questo pittore venne spesso associato a immagini fantasmagoriche e del soprannaturale, con una vena costante di mistero e tendente al drammatico, ispirato molto probabilmente dalla ricerca simbolista di quel periodo. Qui la malattia è usata senz’altro con toni drammatici, ma sempre con una immagine molto vicina alla sfera della vita reale. La festa, i gioielli, il vino: allegoria anche qui, ma molto poco difficile da interpretare, a differenza della Vecchia del Bronzino.
Prossimo e ultimo capitolo, fra qualche giorno. Virus e arte, alla maniera di The Blue Drop. Se vedete nella stanza una vecchia ghignante, che non sia vostra nonna, ripensate alle vostre ultime frequentazioni…

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Comment
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