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LE TERRIBILI DUE. Virus e Arte – QUARTA PARTE

Giugno 1, 2020

Ultimo capitolo di questo viaggio. Virus e Arte

Le Terribili Due

Doveva essere un solo articolo, come ne ho letti tanti in questi giorni, sullo stesso argomento “le malattie e l’arte”, “il virus e i quadri”, “la pandemia nella storia dell’arte” etc…

Però mi vanto di saper fare il mio lavoro. E per questo ho cercato di non lasciare troppi virus scoperti.

Ma è il momento di parlare delle Terribili Due.

Terribili non perché peggiori delle “sorelle” che le hanno precedute negli altri capitoli, anzi.

Solo perché per un fatto di realtà storica, è stato possibile viverle con mano più da vicino, di sentirne parlare tutti i giorni e di aver assistito in prima persona al loro impatto sulla vita e sull’arte.

Cominciamo parlando del Human Immunodeficiency Virus che scoppiò nei primi anni ’80 sullo scenario americano.

Il “Cancro dei Gay” fu chiamato inizialmente, formula perfetta: in sole due parole evocavi la paura e il ribrezzo, l’idea che “cancro” e “gay” fossero un unico concetto che si alimentavano a vicenda, come il simbolo dell’infinito. Un’idea unica che si muove di moto proprio. Questo succede quando tante persone ragionano con una sola testa, un solo pensiero

Il virus fu immediatamente e comodamente associato agli omosessuali, solo perché il suo tipo di contagiosità fu agevolato da un comportamento sessuale meno protetto e più libero. In quel periodo, la promiscuità, non solo gay, era vista come una rivoluzione e un atteggiamento di liberazione dopo secoli di lotte e di repressione. La costrizione divenne amarsi alla luce del sole ed era perfettamente accettata la frequentazione di molti partner senza implicazioni sentimentali.

Abbiamo visto in questo viaggio che ad ogni malattia, in qualche modo, è sempre stata corrisposta una etichetta sociale, sempre molto incoraggiante:

lebbra: peccatore contro Dio

colera: povero

sifilide: frequentatore di prostitute

tubercolosi: artista romantico e autodistruttivo

HIV: omosessuale e/o promiscuo

Eppure, come dico sempre, le malattie sono molto democratiche, molto più degli uomini. Ma sono perfette per creare delle categorie sociali, anche laddove queste non esistano.

L’ambiente “squilibrato” dei detrattori dell’HIV comprendeva anche molti artisti, naturalmente. Se la malattia divenne un modo per i non-gay di etichettare, ghettizzare e maledire i gay, dall’altro lato divenne anche un argomento attuale, sensibile e molto intrigante.

Mi ha colpito molto la crudezza estrema e la nera dolcezza di David Wojnarowicz, che trattò l’argomento sia perché l’AIDS gli portò via l’amore della sua vita e il suo mentore, Peter Hujar, sia perché lui stesso ne fu contagiato e ne morì.

Vi è una differenza enorme fra chi sceglie di parlarne da esterno e chi lo fa perché ne resta colpito o succede ad una persona amata.

Se le opere di Peter Hujar erano foto in bianco e nero che descrivevano il fulcro spirituale, dannato e iconico della New York degli anni ’70 e ’80, le opere di David Wojnarowicz erano un tripudio di medium vari. Pittura, stencil, collage, ma anche scrittura e fotografia. I suoi capolavori furono anche e soprattutto sulla carta. Il libro “Close to the Knives: A Memoir of Disintegration” rappresenta la sua autobiografia e il suo testamento spirituale, dalle sue esperienze come ragazzo di strada fino all’avvento dell’AIDS in America, fra la gente e fra le persone a lui vicine.

David Wojnarowicz, Morte della Spiritualità Americana, 1987, Collezione Privata

Nell’opera seguente “Morte della Spiritualità Americana” del 1987, David descrive in modo estremamente crittato, concetti molto ampi ma anche fini pensieri e dettagliate opinioni. La “spiritualità americana” è una spiritualità di consumo e di profitto. Si basa sulla religione ma anche su divinità commestibili, viste alla televisione o sulle pagine patinate delle riviste. L’AIDS fece crollare alcuni di questi miti, cosa che per l’America fu intollerabile. Il cowboy che cade dal cavallo e scende verso il gorgo del maelstrom si può riferire a Rock Hudson, il celebre divo di Hollywood simbolo di virilità, bellezza autentica e robustezza americana, idolatrato dalle donne e venerato dagli uomini.

La notizia della sua morte per AIDS e della sua omosessualità fu la caduta di un dio. Così anche i bufali, idealizzazione della forza e della storia americana, che David utilizzò anche in un’altra celebre foto, come immagine di un paese pieno di maschere destinato a cadere per colpa del “cancro dei gay”.

Indissolubilmente, la sensibilizzazione dell’AIDS al mondo fu anche una apertura culturale del e al mondo gay: significava mostrarsi, sopravvivere al giorno dopo, non infettare gli altri ma anche venire additato come un untore. Per questo le opere d’arte legate a questo virus furono potenti ed efficaci. Ma allo stesso tempo furono crude e polemiche, rivolte spesso ad accusare il mondo esterno di indifferenza e crudeltà. Era come se solo nell’ambiente circoscritto questa arte potesse venire capita. Il resto del mondo era cieco, menefreghista e ipocrita, non gli importava che queste persone morissero.

Fra i più celebri, non si può non citare Keith Haring e il suo stile fumettistico, colorato e caustico.

Artista, disegnatore, fumettista: il suo stile fu l’evoluzione pop degli idoli di Andy Warhol, disegnati con uno stile semplice, inconfondibile e spiritoso. Il suo modo di lavorare era descrivere il mondo e sé stesso e non prendersi troppo sul serio. Quando scoppiò l’AIDS fu tuttavia in prima linea. Nonostante fosse un seguace del sesso libero, usò la sua arte per inneggiare al sesso sicuro e alla prevenzione (parola che inizialmente, l’intera comunità gay non aveva voglia di sentire) e a come questa malattia fosse da combattere tutti uniti. I suoi “personaggi” erano infatti all’ insegna della pace e dell’amore fraterno. L’ultimo lavoro realizzato prima di morire, “Tuttomondo”, è un inno alla fratellanza, alla pace e all’ amore senza confini e senza colori. Attraverso le teste e i corpi dei suoi “omini” si crea una catena destinata a unire tutti gli elementi, così come Haring auspicava, sapendo anche di essere malato.

Keith Haring, Tuttomondo, 1989, Chiesa di Sant’Antonio Abate, Pisa

Vi sono opere dedicate esplicitamente al virus, molte delle quali nominate “Untitled”, della seconda metà degli anni ’80.

Keith Haring, Untitled, 1985, Collezione Privata

In molti di queste, il vero “organo” della questione, è proprio l’organo maschile: esso funge da corda che trascina i vari omini in giro per le opere, collegandoli con altri uomini e con altri personaggi: li tiene uniti come un cordone ombelicale, riassumendo quello che era il vero legame fra molti rapporti di quel periodo: il piacere della fruizione del corpo e della libertà. Haring descrive uomini allegri che si fanno dominare dal proprio piacere -lui per primo- molto spesso aggrovigliando i personaggi in scene ardite e posizioni buffe; la rappresentazione della gioia, dello stare insieme e dell’unione fraterna, oppure il salto in gironi infernali dove vengono sedotti da diavoli e creature incastonate di animali.

Keith Haring, Untitled, 1985, Collezione Privata

Un particolare “Untitled” del 1985 mette al centro della composizione, come arrivo e partenza di tutti i legami, che siano gambe, braccia o membri, una faccia umana lessata e in via di disgregazione. La X rossa detiene il punto focale in cui l’occhio cade e tutte le creature intorno al viso cercano di scappare lontane da essa. Anche se nessuno lo ammise né lo ammette, ci sono buone possibilità che quella faccia sia la faccia della malattia, a cui tutti sono legati e dai quali tutti cercano di fuggire. La quale, fa piangere anche gli angeli.

Come già detto, questo tipo di arte venne usata per creare una sensibilità sfrenata al problema, anche se in un certo senso contribuì a creare il divario tra malati e sani che già all’ inizio l’opinione pubblica aveva creato. I lavori di Hering e di Wojnarowicz, sebbene vertessero sugli stessi argomenti, combattevano con stili opposti.

Quando il problema fu finalmente di interesse per gli eterosessuali e non si poté più negare che esso esistesse, molti artisti della “squadra avversaria” cominciarono a mostrare il problema, anche perché l’AIDS (che ora aveva cambiato nome) si legò anche al tema della tossicodipendenza.

Nel primo articolo di Virus e Arte, abbiamo fatto una distinzione molto chiara su quelle che erano le tre macro aree per cui gli artisti raffiguravano le malattie: cronaca, religione, studio scientifico.

Solo in seguito, gli artisti poterono mettersi nell’opera e cominciare a descrivere secondo il proprio punto di vista emotivo, mostrando compassione, paura e spesso raffigurando la propria malattia. Con l’AIDS avvenne quasi il contrario: si cominciò tirando fuori ciò che si aveva dentro, nel modo più sincero e conturbante possibile per poi avviarsi verso un’arte con intenti mostrativi per il grande pubblico.

Un esempio di ciò sono le foto scattate dalla fotografa Therese Frare all’attivista David Kirby nelle sue ultime ore di vita. La famosa foto che cambiò il volto dell’AIDS e che divenne così famosa anche grazie ad una famosa campagna pubblicitaria, ma di cui non si può negare il valore simbolico e il taglio reportistico. Un occhio esterno a cui venne chiesto, con molta semplicità, di utilizzare il valore commerciale della foto per farla diventare immagine e pensiero collettivo.

Therese Frare, The Face of AIDS, 1990

Completamente diverso fu l’occhio di Nancy Goldin, conosciuta nel mondo dell’arte come Nan. Il suo lavoro sul mondo dei malati di AIDS fu un lavoro di bellezza e di interpretazione personale, sia sua che del fotografato. Fu forse l’artista che allo stesso tempo riuscì ad essere tanto dentro e a mostrare con un occhio realistico, ma non documentario. Le persone coinvolte negli scatti erano tutte conoscenze dirette della fotografa. Erano suoi amici, fra questi anche Peter Hujar, David Wojnarowicz, l’artista Vittorio Scarpati e sua moglie Cookie Müeller: il suo intento non era né mostrare le loro sofferenze, né etichettarli, né compatirli.

L’artista sosteneva che non si poteva fotografare una persona senza conoscerla e che non si poteva costituire una identità senza realmente vedere ciò che si aveva davanti e rivelare qualcosa di più. Il suo modo di fotografare veniva considerato liberatorio verso quella che era la vera identità fisica, estetica e sessuale.

Per questo motivo il lavoro sui suoi amici, che fossero malati o artisti o semplici spiriti liberi, si può considerare un passo in avanti per lo stile di rappresentazione di questo terribile male. Non sono mai foto singole, ma in serie. Come se a suo dire non si potesse rappresentare un individuo senza gli altri, senza una famiglia o senza le persone con cui interagisce e per le quali sceglie di essere sé stesso o qualcun altro. Perché l’AIDS non riguarda solo il malato, ma anche chi lo accudisce e chi gli vuole bene. I suoi personaggi sono liberi, affascinanti, coraggiosi, truccati, colorati, molto glamour. Nan li ha fotografati mentre ridevano, piangevano, si picchiavano, si amavano, bevevano, facevano festa, mentre erano a letto (famosa la copertina della sua mostra – capolavoro, La Ballata della dipendenza sessuale, in cui si vede l’artista e il suo compagno nella loro camera).

Nan Goldin, Nan e Brian a letto, NYC, 1983 © Nan Goldin

Che si trattasse di sesso, di amicizia o di malattia, restavano immagini sensibili che ritraevano persone nei loro momenti di maggiore fragilità, la quale poteva coincidere con i momenti di maggiore bellezza.

Ma soprattutto si cercava e si cerca ancora oggi, come faceva Nan Goldin, di inserire l’idea di questo tipo di malattia in un contesto dove il malato non è da solo. Ma l’uomo riesce sempre a ribaltare le sue carte. Il “non essere soli”, per molti diventa “sono in mezzo a noi”.

Mi ricorderò sempre la frase di uno spot italiano sulla sensibilizzazione e la prevenzione dell’HIV, negli anni ’90:

“Ama con tutto il corpo, testa compresa”.

Arriviamo alla pandemia attuale. Al Virus del 2020, anno bisesto, anno funesto. Le Terribili Due

Alla nuova peste del Manzoni, all’Apocalisse, alla nuova influenza “spagnola”.

Al terribile, terrificante, Covid-19.

Ora, siamo qui per scrivere di Virus e Arte, credo che ormai sia chiaro. Perciò farò del mio meglio per parlare di quello e non di cosa penso di questa pandemia. Soprattutto di come la maggior parte delle persone tende ad affrontarla, psicologicamente parlando. Il mio punto di vista potrebbe non piacervi.

Quando il virus è esploso, e si è pian piano avvicinato a noi, il tema principale era sostanzialmente questo:

la situazione ospedaliera e la lotta medica; la cura che non c’era e gli aiuti del governo per la crisi sanitaria. Si guardava agli ospedali su come cominciavano a monitorare i malati e a controllare quelli presunti.

Fra le prime opere, uscirono alcune vignette di Milo Manara in onore dei medici, degli infermieri, degli operatori sanitari e dei lavoratori dei servizi di prima necessità. Li disegnò come dei super eroi in prima linea a cercare di arginare il problema. Un modo leggero e ottimistico, molto colorato, per mostrare quelli che erano i principali pilastri nel gestire la situazione.

Milo Manara, una delle vignette simbolo della lotta al Covid-19, 2020

In diverse interviste, il maestro Manara attribuisce all’arte, in questo momento, un ruolo addolcente, descrittivo e consolatore. Non può aiutare in senso stretto, ma può offrire un occhio distaccato e positivo, aiutare l’immaginazione, il cuore e lo stato d’animo.

Banksy, il super-eroe misterioso del mondo dell’arte, non ha potuto naturalmente fare a meno di dare il proprio contributo. Al pari di Manara, con deliziosa semplicità, crea “Game Changer” in cui viene raffigurato un bambino che sceglie fra i vari super eroi, l’infermiera al posto di Batman o Spiderman. L’ironia – che non manca mai- giace anche nella sottile critica fra coloro che sono gli eroi veri e i “pupazzi”.

Banksy, Game Changer, 2020, © Banksy 2020

Poi è iniziata la quarantena.

E lì si è sollevato il mondo. Poiché la stessa parola “QUARANTENA” è suonata come qualcosa di vicino ai malati più terribili, ad un livello di contagiosità mai visto. Ci ha fatto pensare alla desertificazione delle città, a film disastrosi, ai malati che camminano per le strade e che contagiano semplicemente toccando con un dito. Questo ci ha fatto percepire il mondo mediatico, come se fosse in atto la fine del mondo. Quando il 13 marzo si sentì per la prima volta la parola “lockdown”, si assistettero a scene come le razzie al supermercato o le persone che scappavano freneticamente dai luoghi di contagio. Si assistette ad uno scoppio di reattanza, ovvero la tendenza psicologica del fare esattamente il contrario di ciò che viene chiesto, come si spiega nell’articolo dedicato.

E’ stato lì che il mondo artistico ha cominciato a descrivere il nuovo mondo in cui ci si ritrovava a vivere. Appare doveroso ma anche inevitabile, se è vero che l’arte è figlia del suo tempo. E questo è il tempo del Covid-19

Un mondo di visi coperti dalle mascherine, dalle mani tenute a debita distanza. Dall’uscire con circospezione come in tempo di guerra ad assicurarsi le cose primarie.

Cerchiamo di fare una riflessione semplice, altrimenti il discorso si farà immenso: l’arte è da sempre il riflesso vero della vita. Riflette e rappresenta tutto ciò che sono gli elementi dell’attualità così come viene vissuta. Anche del passato, ma soprattutto del presente.

Abbiamo visto nei capitoli 1, 2 e 3 di Virus e Arte che ad ogni epoca, le malattie erano parte di quella realtà. E a seconda di quelle che erano le esigenze e gli stili sono state rappresentate.

Oggi, il Covid-19 ha trovato un terreno infinitamente fertile per essere rappresentato. Non solo perché una realtà del genere non si era mai vista da circa un secolo. E nessuno era umanamente predisposto ad affrontarla. Ma perché come argomento da trattare era l’ideale.

La cosa più difficile del parlare di questo periodo rispetto agli altri, è l’incredibile moltitudine di sfaccettature che lo pervade. Il vivere l’arte di questo momento, significa vivere il virus non solo come “fatto” ma anche come implicazione filosofica, sociale, antropologica, per non dire politica ed economica. L’arte naturalmente ci è andata a nozze.

I fotografi hanno documentato le città deserte: immagini bellissime, in cui l’uomo viene meno, come in un fotomontaggio lasciando i paesaggi urbani come meravigliosi monumenti liberi di respirare.

Una immagine emblematica di New York deserta

Grande divario fra la moltitudine di persone che condividono il mio punto di vista e chi vi vede solo una scena spettrale.

La street art è una delle manifestazioni più evidenti di dialogo tra virus e arte, in quanto la città si è dimostrata il luogo simbolo dello svuotamento. Se prima si camminava in città circondati da persone, senza nemmeno notare dove si andasse, adesso si cammina guardando dietro ogni angolo, per paura di incrociare qualcuno.

Per cui si è assistito alla creazione di una vera e propria galleria a cielo aperto, con un nuovo e straordinario apparato iconografico: quella che viene definita da molti “la nuova normalità”

Mascherina, guanti, igienizzanti per le mani sono diventati elementi simbolici, da usare per rappresentare l’essere umano.

Una delle molte immagini diventate il simbolo della nuova “arte ai tempi del Coronavirus © The Covid Art Museum: @donna_adi

Lo stare a casa è diventato il nuovo state of mind (almeno nel momento più difficile). Si guarda alla casa come nuovo luogo di non aggregazione, dove trovare le alternative ad ogni aspetto della nostra vita, dalla palestra alla spiaggia alla Chiesa.

© The Covid Art Museum: @zamurovic.photography

L’occidente è diventato oggetto di fobia, da parte di paesi che fino al giorno prima guardavano alla società come un modello da imitare. Questo, come spiega lo street artist TVBoy, nel suo personale omaggio alla Monna Lisa, Mobile World Virus, comparso sui muri di Barcellona).

TVBoy, Mobile World Virus, 2020, Barcellona ©TVBoy

Una nuova concezione del rapporto umano viene ritratta: il bacio, il contatto, il tocco, diventano strumenti di potenziale contagio. Vengono dunque usati come simboli della lontananza e allo stesso tempo della vicinanza.

L’uomo, che meravigliosa creatura ambigua che è!

La componente tecnologica non è stata trascurata; se prima l’idea dei musei virtuali era un simpatico vezzo delle istituzioni per essere alla mano e al pari con i tempi, adesso è diventata una realtà quasi necessaria. Addirittura, su Instagram si è dato vita al primo museo virtuale per l’arte dedicata al Coronavirus (CovidArtMuseum).

Si è creata una nuova tolleranza ad un certo tipo di fisicità, cominciando a riapprezzare le forme morbide alla Rubens. Si guarda con ironia ai chili accumulati per colpa della lunga inattività e la chiusura di ogni tipo di luogo di attività sportiva. Tantissime le opere – e le vignette e la satira- come nelle opere dell’artista grafica Alla Mingäleva.

Alla Mingäleva, alias JEEZA in una delle sue originali immagini ©JEEZA ©Alla Mingäleva

Questi esempi sono relativi ad un tipo di arte che ha considerato la parte più “concreta” della situazione. Le immagini, i simboli, la nuova iconografia, le nuove città.

Ora, ci sarebbe da considerare tutta la questione artistica relativa a: Covid-19, quarantena e pandemia da un punto di vista concettuale. Perché dietro queste parole, si sono aperti universi infiniti di significati e l’arte concettuale vive di quella nonché di sottili correlazioni.

  • chiusura, apertura, prigionia, trauma

Come nel lavoro di Andrea Francolino sulle crepe, quali portatrici di numerevoli significati (che presto vedremo qui in un articolo-intervista)

  • opportunità, solitudine, rivoluzione sociale, confinamento, distanziamento
  • Fiducia nel prossimo o totale mancanza di essa, per il nemico invisibile della asintomaticità.

L’artista Nico Vascellari, contemporaneamente alla creazione del suo canale YouTube, ha creato una performance come non se ne vedevano da tempo, proprio sul tema della fiducia. Creando l’hashtag #DOOU (Do you Trust me) e ripetendo per 24 ore la frase “I trusted you”.

  • Malattia, sanità, medicina, pandemia storica, fragilità umana, sconsideratezza, egoismo umano, globalità, assenza di confini, mancanza di solidarietà, improvvisa generosità.
  • Vicinanza popolare, paesi uniti anche se distanti, fratellanza,

Francesco Vezzoli e la sua bellissima copertina di Vanity Fair con il tricolore “ferito”: un omaggio al taglio di Lucio Fontana, per la creazione della spazialità e l’abbattimento dell’uso classico della tela. Incarnazione di una nazione colpita nella sanità, nella economia, ma anche nella diffidenza degli altri paesi. #litaliasiamonoi

Francesco Vezzoli, #litaliasiamonoi, 2020, Vanity Fair di Aprile 2020
  • Distanziamento fisico, vicinanza virtuale, lavoro a distanza, amore a distanza, genitori improvvisamente costretti a stare con i propri figli h24

Il super quotato artista Damien Hirst sfrutta la sua popolarità, nel creare un’opera piuttosto semplice, di impatto visivo e di facile riconoscimento. Un cuore(“Butterfly Heart“) o un arcobaleno con i colori della pace e ali di farfalla (“Help the Hungry“) da scaricare gratuitamente dal web come opera di meta-arte, per sentirsi parte della collettività di chi supporta la causa. Gli originali, invece, sono stati e saranno venduti in edizione limitata per devolvere il ricavato agli ospedali inglesi.

Damien Hirst, Help the Hungry, 2020 ©Damien Hirst and Science Ltd. All rights deserved DACS, 2020
Damien Hirst, Help the Hungry, 2020 ©Damien Hirst and Science Ltd. All rights deserved DACS, 2020

Ancora, molti artisti sono stati contattati per condividere l’esperienza della quarantena come evento portatore di riflessioni artistiche, di pensieri sulla vita e sulla sua caducità. Ma soprattutto su tutte quelle cose che davamo per scontate e che improvvisamente ci sono state portate via, etichettate come potenzialmente pericolose.

  • Fase, resilienza, coraggio, imminenza, sublimazione

Parole che prima venivano usate molto poco o in contesti troppo diversi: ora usati a descrivere la condizione quotidiana.

Queste stesse parole sono state usate dalla scultrice francese Manon Nicolay, per creare delle installazioni materiali, ispirate a questi stessi termini. Materiali duri, spezzati, grezzi dai movimenti aggraziati, che cercano l’equilibrio su loro stessi, ispirano un movimento che vorrebbe essere fatto ma viene trattenuto da qualcosa di più pesante.

Potremmo andare avanti per pagine intere.

I concetti che emergono da questa crisi sono infiniti, si ramificano attraverso la quotidianità, la noia, la creatività e la visione artistica. Si creano e si creeranno opere e mostre per anni. I libri di storia e di storia dell’arte dovranno creare un movimento artistico solo per questo 2020 e gli anni che seguiranno.

Prima di concludere, voglio citare un personaggio importante che al pari dei nostri Modigliani, Munch e Schiele, Hering è stato protagonista in prima persona della malattia. Ed è ancora fra noi, quindi rappresenta una testimonianza molto preziosa per il rapporto Virus e Arte. Covid e Arte contemporanea, per essere attuali

Michelangelo Pistoletto, 86 anni e guarito al Covid. Artista poliedrico e baluardo del movimento dell’Arte Povera, nonché creatore del progetto “Terzo Paradiso” in cui le azioni, artistiche e non, sono votate alla creazione di un equilibrio ritrovato e duraturo fra Natura e Essere Umano. Proprio in nome di questa filosofia, l’artista parla della sua esperienza con una delle Terribili Due. Descrive il virus come un ibrido fra Scienza e Natura.

La Natura è sempre presente e bisogna fare i conti con essa, con il fatto che queste cose accadono quando si arriva ad un disequilibrio. E’ come quando, la malattia ti lascia senza ossigeno nel sangue, vi è un forte squilibrio e si soffoca, le cellule muoiono. L’artista ha potuto, come molti, riflettere sul vuoto di cui non ci si accorge perché riempito dai miliardi di stimoli che ci circondano. Quegli stessi stimoli che a loro volta costituiscono immagini di noi (reale, sociale, professionale, amicale). Ma se questi vengono meno, la nostra stessa identità viene meno.

Michelangelo Pistoletto che traccia il simbolo del Terzo Paradiso

In mia opinione, e qui giuro che chiudo, l’esperienza di questa influenza ha fatto più danni alle nostre immagini. Ha rivelato quanto siamo impreparati, se la superficie della vita quotidiana si incrina. Abbiamo detto che ogni malattia in qualche modo crea una “etichetta” per chi la contrae. Molti direbbero che Covid-19 è uguale ad anziano oppure a debole. Io non saprei che etichetta dare, credo che solo il tempo ce lo dirà. Questa è una affermazione molto diplomatica, forse potrei avere la parola giusta. Ma resta un segreto…

L’arte ai tempi del Coronavirus ha un grande fattor comune nelle sue opere: la tutela, la copertura, l’incognita di non sapere più cosa tocchiamo o chi incontriamo. Mettere una superficie fra noi e l’altro. E il panico che questo modifichi la nostra esistenza, che ci costringa a limitare le nostre libertà e i nostri comfort, fa più paura delle Terribili Due.

Lo Scrittore
Le Terribili Due

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Arte  / Narrazioni

Lo Scrittore

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5 Comments


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